IMPRENDITORIA A CASARANO NEL SECOLO XX (1854 di Giuseppe Ferilli)

                                                                       

                                            UNIVERSITÀ DEL SALENTO

                                             FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA

                                    CORSO DI LAUREA TRIENNALE IN LETTERE MODERNE

                    _______________________________________________

                                                          TESI DI LAUREA

                                                                       IN

                                       STORIA CONTEMPORANEA (M-STO/04)

 

 

                             IMPRENDITORIA A CASARANO NEL SECOLO XX

 

 

 

 

 

 

                                                                                                           Laureando:

                                                                                              Giuseppe FERILLI

 

 

          ANNO ACCADEMICO 2012/2013

                                                        INDICE

 

 Introduzione                                                                                       p.  4

 

Parte prima  

Note sul processo d’industrializzazione in Puglia nei secoli XIX-XX  

1.1 Alcune linee di ricerca sulla storia industriale pugliese                          >>8         

1.2 Dinamiche di sviluppo dell’economia e della società pugliesi dalla fine dell’Ottocento agli anni Novanta del Novecento                                    >> 14

 

PARTE SECONDA  

Salvatore Nicolazzo e Luigi Capozza: due pionieri dello sviluppo economico di Casarano  

2.1 Cenni sulla società e sullo sviluppo economico di Casarano              >>24

2.2 Il calzaturificio “Elata”, un esempio d’impresa longeva                         >>28

2.3 La “Ditta Capozza”: dalla fabbricazione dell’alcool all’elettricità e alle altre iniziative industriali                                                                        >>36

 

 

Fonti                                                                                                            >> PAGEREF _Toc359800227 \h 48

Bibliografia                                                                                      >> PAGEREF _Toc359800228 \h 53

Sitografia                                                                                      >> PAGEREF _Toc359800229 \h 55

Appendice Iconografica                                                               >> PAGEREF _Toc359800230 \h 56

 

                                   INTRODUZIONE

 Il presente lavoro s’inserisce nell’ambito degli studi riguardanti la storia d’impresa, un campo di ricerca che negli ultimi anni sta acquisendo sempre più rilevanza. Si tratta di un settore storiografico ancora tutto da indagare, che, grazie soprattutto al ricorso all’economia, sta registrando interessanti risultati. Come ha precisato Luigi Masella qualche anno fa, la crescita economica italiana offre lo spunto per analizzare le realtà produttive del nostro Paese, regione per regione, mettendo a fuoco le imprese che hanno costituito la base dello sviluppo economico[1].

Partendo da queste suggestioni, in questo lavoro l’attenzione si focalizza sulla Puglia, e nello specifico sulla cittadina di Casarano, di cui si ricostruiscono, nel corso del XX secolo, i percorsi biografici di due imprenditori particolarmente significativi per l’economia salentina, ossia Salvatore Nicolazzo, attivo nel campo calzaturiero, e Luigi Capozza, attivo invece nel settore industriale della distillazione dell’alcool, della produzione di pasta e della fornitura di corrente elettrica, oltre ad altre attività a queste complementari.

Duccio Bigazzi guarda attentamente ai percorsi biografici degli imprenditori, osservando che la storia d'impresa in Italia è fortemente caratterizzata da ricerche che hanno come oggetto gli imprenditori; infatti, molti lavori si presentano esplicitamente come biografie, oppure come una ricostruzione delle scelte strategiche operate da gruppi di dirigenti aziendali. Si tratta quindi di storie di uomini, prima che d’istituzioni, di persone che prendono le decisioni strategiche di un'impresa[2]. Quest’orientamento – prosegue  sempre Bigazzi – non è una tappa di avvicinamento a una più evoluta storia economica d'impresa, ma è un lavoro influenzato fortemente dalla tradizione storiografica preesistente, come la storia politica e la storia sociale. Tutto ciò è stato un bene, perché ha permesso di ampliare la storia d'impresa nel contesto di interazione sociale, cultura e comportamenti politici, senza essere troppo rigidi e schematici, all'interno di modelli prescrittivi. I percorsi di un numero, anche limitato, di personaggi riescono a rappresentare efficacemente l'evolversi del sistema delle imprese, e il mutare nel tempo del loro rapporto con lo Stato e i suoi apparati[3].

Tuttavia, precisano gli storici, occorre estrema cautela nella generalizzazione di percorsi individuali e nella proposizione di "figure rappresentative". Esiste infatti il problema dell'intervento della memoria autobiografica, che tende a complicare il quadro storiografico, con alcune specificità che riguardano gli imprenditori[4].

A livello regionale, gli studi sulla storia della Puglia cercano di tracciare le linee di sviluppo di una serie di realtà imprenditoriali che sono state in genere trascurate dalla storiografia, ma che sono risultate fondamentali per uscire da periodi di crisi intensi adattandosi al mercato: la crisi agraria del 1887, ad esempio, oppure quella internazionale del 1907[5]. Gli studi più recenti, del resto, restituiscono un immagine del Mezzogiorno meno immobile rispetto al passato, caratterizzato dall’avanzamento di nuovi distretti industriali, moderni e specializzati, che fungono da propulsore per l’economia nazionale. Per questo, precisano alcuni studiosi, sarebbe ingiusto accusare gli imprenditori meridionali di scarsa mentalità innovativa, in quanto ognuno, nelle sue specificità, ha fornito il proprio contributo dimostrando capacità adattativa rispetto al contesto in cui ha operato.

Alla luce di queste premesse il lavoro qui presente si divide in due parti.

La prima parte è dedicata alle principali questioni di storia dell’industria pugliese e delinea un profilo dell’economia regionale a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento, con particolare attenzione all’emergere della proto-industria. Si ricostruiscono poi il formarsi del “triangolo industriale pugliese”, (costituito com’è noto da Bari, Brindisi e Taranto), tra la crisi del 1887 e i primi del Novecento, e il diverso percorso di sviluppo economico e sociale seguito in Terra d’Otranto dall’area leccese. Vengono infine esaminate le principali trasformazioni industriali operate in Puglia per effetto della politica fascista e le trasformazioni generali che investirono la regione dagli anni Cinquanta sino agli anni Novanta del Novecento, con particolare attenzione all’emergere, negli anni Settanta, dei nuovi poli di sviluppo.

La seconda parte, dopo un’introduzione sui principali caratteri dell’industrializzazione e dell’economia di Casarano, con alcuni rifermenti ai tratti generali della società locale, si sofferma sui due casi di studio di Capozza e Nicolazzo. Del primo, in particolare, si mette in evidenza la varietà dell’iniziativa industriale, comprendente, come abbiamo detto, la fabbrica di alcool e del cremore di tartaro, un impianto elettrico, un molino ed altri esercizi complementari a queste attività. Del secondo, si pone l’accento sulla gestione a conduzione familiare dell’attività calzaturiera, che ha saputo modificare nel suo piccolo la produzione delle calzature in modo innovativo, adeguandosi al mercato, volgendo lo sguardo anche al di fuori dei confini nazionali, rappresentando ancora oggi un caso di successo dopo quasi cento anni di attività.

Le fonti utilizzate per la ricostruzione dei suddetti profili imprenditoriali comprendono principalmente una serie di fonti coeve a stampa e i fascicoli delle loro imprese disponibili presso il Registro delle imprese conservato presso la Camera di Commercio di Lecce. Il lavoro si è avvalso inoltre dell’intervista concessa a chi scrive da uno dei figli di Salvatore Nicolazzo, Martino Nicolazzo.

 

 

                                 PARTE PRIMA

NOTE SUL PROCESSO D’INDUSTRIALIZZAZIONE IN PUGLIA NEI SECOLI XIX-XX

 

1.1 Alcune linee di ricerca sulla storia industriale pugliese

 

 

Com’è noto, la storiografia tradizionale sulla storia d’industria nel Mezzogiorno, e in Puglia nello specifico, ha privilegiato in genere, fino agli anni Settanta del Novecento, i limiti delle strutture e dello sviluppo del Mezzogiorno, ponendo l’accento soprattutto sull’arretratezza dell’economia meridionale, sul controllo dell’agricoltura di tipo arcaico su tutto il sistema delle attività produttive, sulla necessità della modernizzazione del territorio regionale e della sua crescita economica, incentrata in modo esclusivo sul mondo contadino e sui braccianti, con piani di valorizzazione della società tra Ottocento e Novecento[6].

Nel corso di tutto il XIX secolo, e in particolar modo a conclusione del processo risorgimentale, infatti, molti studiosi dei processi d’industrializzazione in Puglia evidenziarono i termini sia di una concezione mercantile e d’impresa sia di una visione caratterizzata dalle realtà agricole e di provincia; inoltre, s’iniziò ad analizzare la “questione meridionale”, evidenziando come l’agricoltura e l’industria del nord fossero sostanzialmente superiori a quelle del sud[7].

Successivamente, soprattutto nel secondo dopoguerra, anche gli studiosi di economia, in termini più tecnici rispetto agli studi tradizionali, ma complementari al campo di ricerca, hanno si sono soffermati sui caratteri dell’industrializzazione della Puglia, alla costante ricerca di una modernizzazione delle strutture e discutendo di come organizzare i circuiti produttivi per inserirli in un contesto internazionale di mercato[8].

A partire dagli anni Ottanta del Novecento, è maturato un nuovo filone di studi sulla storia dell’industria meridionale che ha messo in evidenza come la modernizzazione si poteva conseguire attraverso lo sviluppo dell’impresa, incentivato anche dall’intervento dello Stato[9].

Questo nuovo approccio storiografico ha portato a mettere in evidenza, in particolare, le trasformazioni che investirono la Puglia tra Otto e Novecento, come lo sviluppo indirizzato ai nuovi scambi di mercato aperti nel Mediterraneo, il rapporto tra potere centrale e potere locale, ecc[10]. Ciò che ha restituito l’immagine della Puglia come una realtà in movimento, anche sei mutamenti non avvengono in maniera lineare, sono disordinati, accentuati dal fatto che sia lo Stato e il mercato, sia la voglia di partecipazione alla vita politica dei lavoratori creavano spinte spesso contrarie l’uno verso l’altra[11]. Tra Otto e Novecento, inoltre, la Puglia aveva sviluppato le caratteristiche della società moderna, vi erano nuovi ceti sociali, borghesi e proletari[12], ed inoltre il rapporto tra città e campagna era stato rivisto, la proprietà terriera ha sempre meno peso, ed il protagonismo politico è sempre più presente.

Tuttavia, nonostante tali processi di trasformazione, non si riuscirono a colmare alcuni ritardi della Puglia rispetto alle regioni del nord: la terra risulta spesso improduttiva, la condizione di lavoro e la disponibilità di denaro molto scarse. La Puglia inoltre presenta evidenti problematiche ambientali e condizioni difficili dal punto di vista del posizionamento geografico[13].

Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, la geografia dello sviluppo aiuta a capire quali sono i meccanismi perché una specifica città o regione ha una storia di rilevante crescita economica, oppure rimane ai margini delle aree forti; aiuta a capire quali sono i meccanismi per cui questo avviene; indica quali possono essere le più importanti iniziative di politica economica per accompagnare lo sviluppo dei territori o per arrestarne il declino. La geografia dello sviluppo economico ha alcune leggi molto chiare e semplici; ma insegna che vi sono molti importanti aspetti per i quali l’esito è incerto, e quel che accade può essere di segno diverso[14]. Ad esempio, sappiamo bene che a spiegare il successo di molte città e regioni può essere una dotazione iniziale di materie prime o energia; una favorevole disponibilità di fattori produttivi pregiati, come il lavoro a più alta qualifica o capitali impiegabili nelle manifatture; una collocazione geografica favorevole, al centro di ampi bacini di domanda serviti da collegamenti ferroviari e stradali[15]. Questi fattori iniziali tendono a produrre conseguenze che durano e si rafforzano nel tempo, il mercato che favorisce la nascita delle imprese industriali e la loro occupazione. L’occupazione industriale crea potere di acquisto e aumenta la grandezza del mercato, nasce così la domanda di nuove infrastrutture o il potenziamento di quelle già esistenti, il mercato è così reso più ampio e coeso. L’industrializzazione italiana, si polarizzò sin dall’inizio nel Nord-Ovest e poi si diffuse verso Est e verso Sud, ma senza mai toccare in pieno il Mezzogiorno. L’emergere di una polarizzazione del tipo Nord-Sud non è un esito obbligato e senza eccezioni nella storia, tanti altri fattori possono giocare un ruolo diverso, e favorire processi anche intensi di sviluppo in regioni che apparentemente, o all’inizio, sembrano arretrate[16]. Ad esempio, all’interno dei processi di sviluppo vi fu la manifattura domestica, che nel corso del XIX secolo fu investita da diverse problematiche e difficoltà, che andarono a sommarsi a quelle delle iniziative industriali, come la rottura in termini di strutture e personale, questo fece capire come il Mezzogiorno e la Puglia non erano il terreno per far emergere la proto-industria[17].

La proto-industrializzazione fu una forma di organizzazione del sistema industriale (soprattutto tessile), affiancò l'industrializzazione e in Europa questa andò dalla seconda metà del Seicento a buona parte dell'Ottocento. Essa favorì, l'industrializzazione; tuttavia gli effetti dell’industrializzazione non si ebbero in Puglia come nel resto del territorio nazionale ed europeo[18]. Caratteristiche di questo fenomeno furono la presenza nelle campagne di attività industriali dinamiche. L'impiego di famiglie contadine, soprattutto nei mesi in cui i lavori agricoli erano meno impegnativi, avviò una vera e propria industria a domicilio; i salari erano più bassi che nelle città, e i mercati, cui era destinata la produzione, erano lontani. In molti casi la proto-industria provocò nelle campagne l'aumento della popolazione, l'aumento dei redditi contadini, la formazione della manodopera e dei capitali.

Gli effetti dell’industrializzazione investirono anche la provincia leccese, infatti, nel Salento, nel Gallipolino e nella zona del Capo di Leuca, nel territorio tarantino l’organizzazione manifatturiera era stata caratterizzata dalla coltivazione del cotone, con i tratti del lavoro a domicilio, tuttavia, il settore tessile in alcune zone, aveva oltrepassato il formato domestico[19]. Il paesaggio economico e sociale pugliese, tuttavia, durante il periodo pre-unitario e proto-industriale subirà comunque delle modifiche importanti e rilevanti, attraverso le quali nella seconda metà dell’Ottocento, ci fu lo sviluppo industriale[20]. Al compimento della prima metà del XIX secolo si assiste alla maggiore concentrazione a livello spaziale dell’industria e a una diversificazione e qualificazione della produzione; infatti, oltre ai beni di prima necessità le diverse attività producono altri beni; il settore tessile e le produzioni legate alla terra saranno affiancate progressivamente da altre iniziative, specializzazioni che riguarderanno il settore e chimico, meccanico e alimentare, strettamente legati al moderno mercato urbano, creato dal massiccio processo di urbanizzazione[21]. La nuova economia commerciale agro-industriale portò in Puglia le prime iniziative, marcatamente industriali. Questi indubbi segni di una prima espansione e innovazione produttiva dell’industria furono in contrasto con la scarsa capacità di fuoriuscire da un mercato locale.

La storiografia industriale affronta un altro tema importante riguardo la grande crisi agraria che si verificò nel 1887 e che proseguì per una decina di anni. Durante la crisi ci fu la chiusura del mercato da parte dell’Italia con la Francia; la Puglia dovette affrontare le durissime conseguenze di questa situazione: il prodotto delle attività pugliesi, che era il vino-mosto, infatti, aveva una grande fortuna sul mercato in Francia e questa cesura di un cosi importante sbocco di mercato determinò gravi conseguenze sull’economia e la produttività della regione[22]. In questo contesto, si avanzarono da più parti richieste verso la riorganizzazione delle strutture produttive, quelle commerciali e industriali, all’interno di un progetto che comprendeva anche l’ampliamento delle infrastrutture necessarie per trovare le nuove vie per il mercato internazionale, sul quale immettere i nuovi prodotti di qualità[23].

Il processo di differenziazione delle aree propense al mutamento e alla modernizzazione delle strutture produttive a questo punto accelerò; le zone che rimasero ancorate ai loro vecchi metodi divennero man mano marginali[24]. Il basso Tavoliere, la fascia costiera barese, il brindisino e il tarantino, che rappresentavano la Puglia agricola, ebbero l’impulso di svilupparsi, mentre la Puglia marginale, rappresentata dalle aree di confine del Gargano, del subappennino dauno e il basso Salento, restò esclusa da tali processi di sviluppo[25].

Inoltre, il settore tessile pugliese fu logorato dalla grande crisi economica e commerciale che dovette affrontare, fino a determinarne il suo declino. Gli scarsi capitali e le modeste dinamiche sociali riportarono un peggioramento nella qualità dei prodotti manufatti e la creazione di un vero e proprio mercato, dove indirizzare i nuovi prodotti. Tra le motivazioni più grandi del mancato sbocco sul mercato delle manifatture in Puglia vi fu la consuetudine dei lavoratori di abitare in città anziché in campagna, consuetudine che non permise alle coltivazioni specializzate di avere quelle cure continue che erano necessarie.

 Al contrario, la coltivazione del tabacco, dai tratti un po’ più industriali, conobbe una sorte meno convulsa, ma ad ogni modo non riuscì a costituire un elemento economico decisivo per l’assetto economico della regione e della e nel particolare della provincia salentina[26].

 Nel complesso la situazione si presentava come una trama assai debole dunque, che nel secolo successivo tramonta per la presenza minima di tentativi di modernizzazione[27].

  

1.2 Dinamiche di sviluppo dell’economia e della società pugliesi dalla fine dell’Ottocento agli anni Novanta del Novecento

 

 

La provincia di Terra d’Otranto, alla fine dell’Ottocento, presentava dinamiche di sviluppo e di crescita differenti. Lecce si caratterizzava per il suo ambiente statico e presentava una società che viveva nel benessere, composta da ricchi proprietari aristocratici, senza un progetto economico e di mercato, un progetto che era necessario per recuperare un ruolo all’interno del territorio salentino. Brindisi e Taranto, al contrario, vivevano due realtà irrequiete, investite da una crescita imponente ma alquanto disordinata[28].

Per quanto riguarda in particolare la provincia di Lecce, un nuovo slancio alle attività produttive fu fornito da alcuni aristocratici leccesi, che oltre ad organizzare le proprie attività si sforzarono di dare l’impulso a tutte le altre attività della provincia; questa spinta fu assicurata anche dalla Camera di Commercio di del capoluogo salentino, organismo composto non a caso dagli aristocratici che si prodigarono per dare nuova linfa all’economia provinciale[29]. Commercializzazione dell’olio e artigianato molto cercarono di fare da propulsore per le altre attività, che puntarono ad essere presenti in maniera duratura nel panorama leccese, ma anche la produzione di pasta e il commercio marittimo si dimostrarono attività produttive in grado di risollevare le sorti economiche.

Tuttavia, nonostante il nuovo slancio delle attività produttive, nell’area leccese si manifestarono alcune difficoltà, come lo scarso investimento delle considerevoli risorse economiche, che comportò il ricorso alle istituzioni bancarie.

Nuovi capitali, anche esteri, arrivarono dall’entrata in politica di alcune figure della borghesia professionale leccese, protagonisti di un impegno volto ad una serie di importanti opere a livello di infrastrutture, costruzione di ferrovie e strade, ma anche di innovazioni come l’elettricità e le fabbriche di ghiaccio artificiale. In questo contesto, l’economia trovò nuova linfa, grazie alla spinta del sistema produttivo.

Tuttavia, dopo la prima guerra mondiale, l’economia leccese rallentò nuovamente, anche per le difficoltà che si accentuarono a causa della concomitante crisi bancaria del 1924-1925 e del passaggio dell’azienda elettrica (SPGE) del comune di Lecce, che attanagliarono le casse delle attività, alle prese con le loro già grandi ristrettezze economiche, e i grandi costi dell’energia da supportare. Gli equilibri economici cambiarono ancora; il tabacco, che già aveva rappresentato una risorsa importante a livello di produzione, ritornò prepotentemente tra le attività e divenne la base su cui costruire una nuova posizione sociale per la borghesia leccese.

Maturarono così nuove dinamiche di stratificazione sociale, si sviluppò il settore terziario e il pubblico impiego a svantaggio dell’artigianato e della moderna imprenditoria; emerse inoltre l’interesse per il conto in banca, per l’edilizia e la gestione del capitale pubblico tramite l’intervento dello Stato[30].

         Se dunque l’area leccese, tra la fine dell’Ottocento e il primo dopoguerra, era investita da questo tipo di processi di sviluppo economico, di diversa portata erano invece le dinamiche che investirono Taranto, Brindisi e Bari. Dinamiche che avrebbero portato al costituirsi del “triangolo industriale”.

            Queste aree d’insediamento industriale avevano come centro di concentrazione le città di capoluogo di provincia e uno stretto numero di comuni che assimilavano la maggior parte del peso economico. Per quanto riguarda Brindisi e Taranto, il settore agricolo e quello edilizio rappresentano ancora il punto fermo della forza lavoro, e poi si svilupparono i nuovi settori metallurgico, chimico e meccanico[31].

            Se Lecce, come abbiamo detto, sembrava arroccata sulla sua agricoltura ed aveva un ruolo del tutto marginale, i territori tarantini e brindisini al contrario rappresentavano una possibilità di sviluppo per il nuovo sistema industriale, tanto che lo stesso Stato ne agevolò la formazione[32].

            Taranto, grazie alla sua posizione centrale fra i due mari, offrì la migliore locazione per uno stabilimento marittimo, nella città tarantina la strategia industrial-militare portò due grandi industrie: l’Arsenale militare e il cantiere navale. L’attività della pesca fu meno curata dal punto di vista produttivo rispetto alle due grandi industrie, e solo gli impianti siderurgici più tardi riuscirono a sostituirsi all’Arsenale e all’industria cantieristica.

            Brindisi, dal suo canto, nonostante le molte difficoltà, non ultima la concorrenza di altri grandi porti italiani ed europei, ed il primo conflitto mondiale, tentò di trasformarsi nel terzo polo della regione e fece leva sul suo porto, allo scopo di divenire un grande scalo commerciale e turistico per l’Oriente. Il consolidamento della struttura amministrativa, negli anni che seguirono la guerra, intorno al 1930, sicuramente, confermò il suo distacco da Lecce. Autonomamente, infatti, Brindisi aveva puntato a creare una zona industriale, con al suo interno cantieri aeronautici e un’industria chimica[33].

            Per quanto riguarda Bari, le classi dirigenti baresi puntavano soprattutto sul controllo politico regionale, e in fin dei conti, il grande polo industriale non apparterrà mai a Bari e al suo territorio provinciale, infatti, in provincia di Bari, le aziende che erano sorte, avevano i segni d’imprese dalla grandezza contenuta, inserite in un contesto di mercato urbano, locale e rurale, ancora sostanzialmente ad uno stadio preindustriale.

         Tra le due guerre mondiali, la società pugliese e la sua economia subiscono trasformazioni considerevoli.

In particolare, fu negli anni del fascismo che si avviarono in Puglia importanti processi di sviluppo economico, garantiti dal regime e dalle sua attività di partito a livello di politica pubblica e territoriale[34].

            In tal senso, gli studi sul fascismo in Puglia hanno evidenziato, fermo restando il carattere violento e di negazione della libertà del regime, i vantaggi che Mussolini impresse al territorio pugliese, nell’ambito delle sue politiche volte a modernizzare la regione[35]. In particolare, è stato posto l’accento sugli effetti positivi che il governo fascista con il suo intervento apportò alla Puglia.

            Furono investiti grossi capitali bancari all’interno di progetti importanti come l’Acquedotto pugliese e altre opere pubbliche.

            In questo contesto, anche Taranto e Brindisi rivestirono un ruolo importante nel progetto fascista. Taranto con la sua espansione politico-amministrativa e la costante attività dell’Arsenale, Brindisi con la sua funzione portuale d’importazione verso Oriente, contribuirono fortemente alla politica del fascismo. Lecce, invece, continuò ad assumere un ruolo un po’ più marginale[36].

              In generale, l’intero spazio pugliese fu, investito dall’attività statale, anche riprendendo progetti ed interventi avviati in precedenza. Furono potenziate le infrastrutture stradali e ferroviarie, per una circolazione delle merci delle idee e delle persone semplificata, la funzione dell’Acquedotto pugliese fu ampliata, per la fornitura dell’acqua della regione, che raggiungesse i giusti livelli per le necessità agricole e la rigenerazione degli ambienti rurali, per renderli più salubri[37]. Attraverso l’Acquedotto, inoltre, fu messo a punto un sistema di depurazione per la bonifica della terra, dove era necessario intervenire per eliminare il paludismo e risanare igienicamente gli ambienti adibiti alle attività agricole, insomma, una vera e propria modernizzazione regionale.

Intanto Bari, in questo periodo, assunse il ruolo di guida della regione, al suo interno i fermenti furono quelli dei ceti imprenditoriali e professionali, che appoggiavano le politiche del fascismo, alla ricerca di uno sbocco sul mercato fuori dai confini nazionali, verso i Balcani ed il Medio Oriente.[38]

            Tuttavia, nonostante questi processi di trasformazione dell’economia pugliese, la crisi degli anni Trenta interruppe, o quantomeno ridimensionò, il progetto del regime, che fu utile solo per decongestionare i centri urbani. I contadini e i piccoli proprietari che investirono risorse e speranze in attività come l’olivicoltura e la viticoltura, crollarono sotto i colpi della crisi.

            Il fascismo non riuscì più a sopperire alla fragilità del mercato con le sue scelte politiche, e i contadini ed i braccianti, in particolar modo, iniziarono una lotta di protesta, e diedero i primi segni di dissenso verso il regime per le condizioni in cui erano precipitati[39]. Marginalizzata l’economia agricola e ridimensionato il ruolo dei proprietari, anche a livello politico, in favore degli industriali, con l’arretramento del progetto d’innovazione sociale e la delusione dei ceti urbani e ruralizzati, che avevano sperato in un nuovo protagonismo a livello locale e nazionale, il fascismo perse il consenso delle popolazioni rurali e povere, che si sentirono tradite. Tutto ciò fece sì che il regime si avviasse verso il declino, nonostante i processi di trasformazione che si erano verificati a livello economico,sociale e territoriale[40].          

Dal secondo dopoguerra, la regione Puglia continuò il suo processo di trasformazione. Nel corso del secondo Novecento, infatti, si verificarono importanti processi di urbanizzazione, mutò lo scenario del territorio, si svilupparono nuove attività produttive, migliorarono il livello culturale e il grado d’istruzione, si assisté in sostanza ad un generale miglioramento della condizione di vita[41].

            Tuttavia, per molto tempo l’agricoltura rimase l’attività economico-sociale cui la popolazione di pugliese si dedicò in maniera costante; infatti, la stragrande maggioranza dei comuni pugliesi mantennero una tipologia rurale[42] e solo nove comuni furono considerati di tipo urbano.

            Lo stato di miseria che le famiglie dei comuni rurali vivevano era caratterizzato anche dalla presenza di un tasso culturale e di alfabetizzazione molto scarso, che evidenziò anche sotto questo aspetto la lontananza che divideva il Sud e la Puglia dall’Italia del Nord.

            A partire dal 1950, però, si avviarono interessanti processi di cambiamento.

La popolazione trascurò l’attività agricola, la crisi dei piccoli proprietari fu evidente, le strutture del lavoro erano state scardinate, il futuro lavorativo fu individuato nell'industria e nei servizi, anche nei casi in cui si continuò a tenere un pezzo di terra da lavorare[43].

            Il ’51 contraddistinse un periodo di crescita economica quasi ininterrotta fino al 1973, una fase segnata dalle politiche d’intervento dello Stato a sostegno del Mezzogiorno, che migliorarono considerevolmente la produttività del lavoro.

            In questo contesto, negli anni Cinquanta, la marginalizzazione di Lecce rispetto a Taranto e Brindisi aumentò ancora, la provincia brindisina e tarantina si basarono al loro interno sullo sviluppo industriale dei settori siderurgico, metallurgico, chimico e petrolchimico; Lecce, al contrario, si differenziò non per un’esclusione dai processi di sviluppo, ma per una produzione più leggera, come quella tessile, dell’abbigliamento e quella calzaturiera[44].

            Lecce alimentò la sua vocazione per la produzione leggera; infatti, nel leccese, si sviluppano attività orientate verso produzioni specifiche del comparto tessile, dell'abbigliamento e delle calzature, capaci di generare rapporti tra imprese, simili a sistemi reticolari, non gerarchiche[45]. Nel leccese, inoltre, molti comuni indicati come polisettoriali,[46] caratterizzati dalla presenza di più attività produttive, s’incentrarono decisamente sul tabacco, che incise in termini occupazionali moltissimo.

            In seguito, negli anni Sessanta, subentrano nuovi processi di trasformazione. Nel 1962, infatti, dopo l'introduzione della legge della riforma della scuola media inferiore, si nota una crescita delle iscrizioni al livello secondario inferiore delle medie e all'avviamento professionale, superando quindi come termine ultimo la quinta elementare. Un fenomeno questo che fu sicuramente possibile per l'obbligatorietà della legge, ma anche per l’incremento del reddito familiare e per le scarse prospettive legate all'agricoltura, oltre al fatto che i nuovi posti di lavoro sono tutti strettamente collegati alla cultura, non ultimo il lavoro stesso d’insegnante.

Nonostante l’agricoltura continuasse a rappresentare un settore vitale per l’economia regionale dunque, si assisteva dunque a una transizione di una società, quella pugliese soprattutto, che passa da agricola a società urbana industriale, nonostante l'agricoltura rimanga un settore vitale per l'economia regionale[47].

Negli anni Settanta e Ottanta, poi, si verificarono le nuove trasformazioni demografiche, insediative, produttive e sociali.

In particolare si assisté ad un’espansione edilizia e a mutamenti importanti negli stili di vita. Prese corpo una specie di rito collettivo nella società, definito metropolitano, ossia il rito del fine settimana, della vacanza stagionale, consentita dalla diminuzione degli orari di lavoro e dall’incremento del reddito, ma anche dallo sviluppo della motorizzazione, con il parco vetture regionale decisamente aumentato nel corso di questo periodo; comincia a diffondersi anche l'esigenza della seconda casa, soprattutto nelle località marine e di vacanza, che negli anni Ottanta arriverà a picchi di costruzione selvaggia di tutti i territori lasciati liberi, con appunto case destinate alla villeggiatura[48].

Se per le province di Brindisi e Taranto il '71 fu un momento molto importante con la nascita delle loro attività principali, il siderurgico, il meccanico e il metallurgico, lo stesso non si può dire di Lecce, che optò per un rilancio dell'economia alternativo, il potenziamento dell'industria manifatturiera. All'inizio degli anni Ottanta il profilo della provincia fu completamente rimodulato.

Il processo d’industrializzazione fu più equilibrato e più omogeneamente distribuito sul territorio, aumentò il tasso di specializzazione, soprattutto nel manifatturiero, e il carattere polisettoriale dei comuni.

 L'espansione dell'edilizia, invece, fu indotta dal benessere e dalle nuove migliori condizioni di vita; infatti, vi fu una crescita della richiesta per la costruzione di nuove case, e della cementificazione lungo le coste a scopo turistico. Le ragioni alla base di questa rilevante crescita del comparto leggero provinciale furono il mutamento dei rapporti internazionali a livello economico dopo la crisi del modello di produzione fordista, e la congiuntura favorevole alla piccola dimensione industriale, che nel leccese trovò terreno fertile per la grande presenza di artigiani, elemento ancora più importante poi fu quello della partecipazione del mercato mondiale dell'Italia con la produzione leggera, favorendo, di fatto, l'industria e lo sviluppo economico leccese[49].

L’industrializzazione degli anni Novanta, infine, confermò l’andamento che si definì nel corso del decennio tra il 1970 e il 1980, con l’abbigliamento e il calzaturiero che si consacrarono come settori in grado di competere sul mercato e di fornire una costante occupazione sul territorio, regionale e salentino[50].

  

                                  PARTE SECONDA

SALVATORE NICOLAZZO E LUIGI CAPOZZA: DUE PIONIERI DELLO SVILUPPO ECONOMICO DI CASARANO

 

 

2.1 Cenni sulla società e sullo sviluppo economico di Casarano

 

         Prima di soffermarci sui percorsi imprenditoriali di Nicolazzo e Capozza, in questo paragrafo analizzeremo alcune linee di sviluppo economico e sociale della cittadina, utili per contestualizzare le due figure industriali in questione.

         Casarano, comune della provincia di Lecce, è quasi a mezza strada tra il capoluogo provinciale e S. Maria di Leuca, alla punta estrema del tallone d’Italia. Il mare Jonio dista una decina di km, in linea d’aria, e l’Adriatico poco più del doppio. L’abitato si estende su di una zona ondulata, di terre pianeggianti e di serre. Attestata la natura ondulata del terreno, l’altezza di Casarano, sul livello del mare, oscilla tra 111 e 154 metri, rispettivamente in piazza Diaz e sulla collinetta della Campana[51].

Le caratteristiche della cittadina e dei suoi abitanti furono ben sintetizzate dallo stesso, Cosimo De Giorgi, il grande scienziato leccese che più di un secolo fa scrisse: “Casarano colle sue belle vie, col suo aspetto ridente, colle sue piazze, coi suoi giardini mi diè l’aspetto d’una piccola città, più che di un paese; mite n’è il clima perché difeso a tramontana dalle sue colline […] L’ingegno la cortesia e la giovialità dei suoi abitanti son quasi tradizionali. La sua posizione lo rende davvero uno dei centri più popolosi e più industriosi del territorio Gallipolino; ed i suoi mercati di commestibili (veri termometri della ricchezza e della salute di un popolo!) vanno tra i migliori dell’intera provincia”[52].

La testimonianza del De Giorgi, che presenta la Casarano del suo tempo, e in un certo modo ne ha anticipato il futuro sviluppo, indicando e puntualizzando i germi vitalissimi e le ragioni profonde della futura espansione e ingrandimento[53].

Tra il XIX e il XX secolo, Casarano conosce un notevole incremento produttivo: l'olivicoltura, l'industria estrattiva della pietra e l'artigianato. Si svilupparono in questo periodo importanti fiere e mercati che attraggono commercianti e compratori dai paesi limitrofi. L'economia cittadina, inoltre si basa soprattutto sull'industria calzaturiera e sull'agricoltura, di cui le principali coltivazioni sono l’olivo e il vino.

La distribuzione dell’intera popolazione attiva, nei primi trent’anni del XX secolo, all’interno dell’economia casaranese è rappresentata prima di tutto dall’agricoltura, che assorbe la maggior parte dei lavoratori, seguita dall’artigianato e dall’industria; categorie professionali che riguardavano il commercio, i trasporti, gli impiegati di banca, l’amministrazione pubblica e privata, i servizi domestici e il culto rappresentavano, una percentuale molto bassa[54].

Dalla fine del XIX secolo, fu l’industria a divenire il vero motore di sviluppo della cittadina, uno sviluppo che interessò tutto il territorio provinciale e di cui fu particolare espressione Luigi Capozza. Egli, infatti, con la sua attività, dalla fine del XIX secolo fino al primo quindicennio del XX, innescò un processo di sviluppo economico di Casarano che la trasformarono in uno dei comuni più avanzati del territorio provinciale leccese[55].

Relativamente all’agricoltura, essa impegnava la stragrande maggioranza della popolazione attiva[56].

Nel periodo fascista, l’agricoltura del basso Salento, che rispecchiava quello che avveniva anche a Casarano, versava in condizioni abbastanza difficili, non riusciva a garantire occupazione, soprattutto ai giovani,i figli seguivano per forza di cose il lavoro del padre presso il proprietario, impossibilitati a trovare sbocco in un altro campo professionale, non  riuscendo a modificare i rapporti tra proprietario e bracciante[57].

 La politica agraria del regime non ottenne i risultati sperati, e la “battaglia del grano” non fu per niente accolta dai contadini di Casarano, che continuarono a coltivare viti ed ulivi, non solo per l’esportazione, ma anche per il mercato interno.

Quest’ultimo elemento, tuttavia, non rappresentava un punto di forza per l’arretrata economia agricola del paese, che era evidentemente legato alle congiunture dei mercati esteri.

Nel 1931, l’artigianato risultava più equilibrato e dinamico come settore; molto spesso, infatti, chi lavorava presso un’azienda come apprendista, successivamente, riusciva ad avviare un’attività in proprio; non trascurabile fu anche la grossa fetta di falegnami, sarti, meccanici,  cementisti, imbianchini, tornitori e soprattutto calzolai, interessante per capire quanto fosse vivo questo settore, come vedremo successivamente in uno dei nostri casi di studio sulla città di Casarano[58].

Un altro settore molto importante era quello della lavorazione del tabacco, una valida alternativa sul mercato estero, dopo la crisi del 1907, con una grande presenza di donne lavoratrici; ma molto importante risultava pure quello dell’edilizia, anch’esso nel periodo tra le due guerre, dovuto alla politica dei lavori pubblici, insieme all’attività complementare di estrazione della pietra e della sua lavorazione[59]. .

L’organizzazione della produttività fu quindi sorprendente: industria calzaturiera, stabilimenti vinicoli e oleari, fabbriche per materassi e tante altre industrie minori e complementari.

Secondo quanto risulta dai dati riportati nella banca dati sTOria, l’industria di Casarano nel 1951 era rappresentata principalmente dal ramo delle industrie manifatturiere;  infatti, nel 1951 quasi il 95% delle unità locali appartenevano a questo ramo, con il ramo dell’industria delle costruzioni e dell’installazione d’impianti che ricopriva il restante 5%. Questi due rami dell’industria cittadina rimasero costanti in termini di percentuali ai primi posti della produttività, dell’occupazione e dell’economia di Casarano fino al 1991[60].

Casarano, quindi, dalla seconda metà del Novecento, fu uno dei comuni più industrializzati del Salento, specializzato nella produzione calzaturiera, svolgendo il ruolo di centro focale di un'ampia area del basso Salento in qualità di principale luogo di uffici, scuole e commerci[61].

Negli ultimi decenni la cittadina ha registrato un rapido e notevole incremento; sono saliti gli abitanti, che raggiungeranno e supereranno, nel 2012le 20.000[62]unità; l’abitato si è esteso in tutte le direzioni, con servizi e infrastrutture adeguate[63].

        

 

2.2 Il calzaturificio “Elata”, un esempio d’impresa longeva

 

        

            Nel contesto poc’anzi esaminato, si inserì la vicenda imprenditoriale di Salvatore Nicolazzo, significativo caso di azienda calzaturiera, attivo ancora oggi nel settore. La sua vicenda si lega principalmente al calzaturificio “Elata” (bella scarpa), che fu, come vedremo, protagonista della scena economica casaranese.

         Nella sua iniziativa si riscontrano alcune caratteristiche principali di un’impresa di successo, ossia la capacità di resistere nel tempo, la capacità di rinnovarsi, ad essere tenace in qualsiasi momento di crisi a cui può essere sottoposto, in un solo termine: la longevità[64]. “… sono quasi novanta anni …”[65] è stata non a caso la battuta d’esordio di Martino Nicolazzo, uno dei figli del fondatore della ditta, che ha così risposto all’intervista concessa per approfondire questo lavoro di studio.

            Salvatore Nicolazzo nasce il 30 aprile del 1899 a Casarano.

            Il calzolaio è il mestiere di famiglia, radicato all’interno della sua casa da sempre. Proprio seguendo questa antica tradizione familiare, in particolar modo l’esempio del nonno Giovanni Simone Nicolazzo, Salvatore Nicolazzo imparò l’arte del calzolaio nella bottega paterna[66].

            Riguardo al nonno, risulta che, militare di leva durante il periodo borbonico, la regina[67] gli commissionò un paio di scarpe; l’abilità del calzolaio sorprese la regina, che ricevendo un paio di scarpe con la tomaia in unico pezzo, soddisfatta e compiaciuta del lavoro fatto, premiò il soldato-calzolaio offrendogli un periodo di licenza.

Dopo l’esperienza fatta nella bottega del padre, Salvatore Nicolazzo si trasferì sedicenne a Milano, deciso a fare un ulteriore apprendistato presso le industrie del capoluogo lombardo e in generale al nord[68]; dall’intervista a Martino Nicolazzo, risulta come  Milano all’epoca del viaggio del padre era considerata una delle città che nel settore del calzaturiero potevano offrire tanto, sia in termini di lavoro che in termini di apprendistato. Questa esperienza fu utile anche per guadagnare il denaro, lavorando da calzolaio, risorse monetarie che secondo il suo progetto gli avrebbero permesso di impiantare un suo calzaturificio a Casarano una volta tornato nella sua cittadina[69].

            Non sappiamo quanto effettivamente Salvatore restò a Milano. Sappiamo però che nel 1923 fondò, in via Matino al numero 50, poco più che ventenne, “Elata” la prima fabbrica di calzature a Casarano.

            L’attività calzaturiera fu dapprima sostenuta non solo dalle risorse che nel frattempo Salvatore aveva accumulato anche a Milano, ma anche dagli sforzi economici sia del padre sia del suocero. Inoltre, Salvatore fu subito coadiuvato dalla moglie, Leonarda Mita[70].

             La fabbrica sin da subito a garantire occupazione alla manodopera locale, offrendo posti di lavoro alla popolazione casaranese; la produzione in serie arrivò ad un numero di circa seicento paia di scarpe al giorno. Così, sostiene Martino Nicolazzo, “I calzolai di bottega, in molti, storsero il naso; per questi il lavoro di calzolaio era un’arte, ed ogni paio di scarpe degno di questo nome doveva essere il frutto di un lavoro a mano, curato nei minimi particolari; quindi, una produzione in serie e di un così alto numero di paia di scarpe era visto come un lavoro mal fatto, che non era il frutto di un’operazione effettuata con criterio e con amore e rispetto del mestiere”[71].

            Tuttavia, lo spirito di pioniere e la profonda sensibilità sociale di Nicolazzo lo spinsero oltre le critiche.

            L’umile ciabattino aprì alla città di Casarano, e in generale anche alla provincia di Lecce, la via della crescita economica, gettando appunto i semi della crescita del settore calzaturiero casaranese, che come vedremo più avanti giungerà a livelli internazionali e di prestigio.

            In pochi anni il calzaturificio “Elata” divenne uno degli stabilimenti calzaturieri di punta del settore, forse dell’intero territorio regionale, seguendo quello che fu il percorso della provincia di Lecce, in cui si alimentò la predisposizione per l’attività leggera, differenziandosi da quelle che erano gli orientamenti delle altre province della regione[72].

            All’interno del calzaturificio, nel corso del tempo, si formarono diversi altri calzolai, e successivamente anche imprenditori di un certo livello dello stesso settore[73]; e ciò contribuì far si che a Casarano si avviassero sempre più processi di trasformazione dell’economia locale a carattere manifatturiero.

Dal 1923 fino al 1959, l’azienda visse sotto la costante vigilanza di Salvatore Nicolazzo, e attraverso una crescita esponenziale, coniugando armoniosamente la lavorazione delle tomaie, la produttività e l’immissione sul mercato, e non ultimo la cura e la formazione, come sottolineato prima, delle nuove generazioni di calzolai, che all’interno del calzaturificio finalizzavano il loro apprendistato. Tra questi, ci furono anche i figli di Nicolazzo[74], che stando a contatto con il padre, riuscirono a carpirne i segreti, le intuizioni e soprattutto fecero propria la capacità di gestione di un’azienda che allargava sempre di più i propri confini e la sua importanza sul territorio.

            L’azienda nacque come una società a conduzione familiare, e questo carattere rimase all’interno del calzaturificio sempre, come l’innata predisposizione, di ogni componente del nucleo familiare, all’arte del calzolaio[75].

            Di fatto, i figli e la moglie si occuparono della gestione dell’azienda nel 1959, dopo la morte di Salvatore, avvenuta l’11 settembre di quell’anno[76],e, grazie all’esperienza fatta, acquisirono una formazione adeguata per condurre sulla stessa linea di crescita l’attività.

            L’azienda, prima della morte di Salvatore Nicolazzo, era in attivo, tanto che il proprietario valutò anche la possibilità di chiudere l’attività e sistemare i figli diversamente; i due figli maschi di Nicolazzo erano impegnati nello studio universitario, quindi avrebbero avuto un futuro assicurato nel proseguo della loro vita, alle figlie invece aveva intenzione di affidare l’azienda, modificandone però la produzione, voleva basare l’attività sulla lavorazione di ciabatte, riducendone i costi che comportavano l’acquisto di macchinari e manodopera[77].

            Gli stessi figli si opposero, e puntarono forte sulla modernizzazione dei macchinari all’interno dell’azienda, rinnovando tutta la strumentazione per ripartire ancora più forti nel ramo manifatturiero, che in quegli anni continuava a crescere e a modernizzarsi, diventando sempre più competitivo[78].

            I figli e la moglie iniziarono il loro percorso da dirigenti dell’impresa, e dovendo dividersi le responsabilità all’interno dell’attività decisero di costituirsi come società di fatto; infatti, lo stesso anno, dopo la morte del padre, la società cambiò ragione sociale, e da società individuale divenne società di fatto, costituitasi presso la Camera di Commercio di Lecce il 16 settembre del 1959[79].

            La società si costituì come calzaturificio, e all’interno la lavorazione verté sulla produzione di calzature per donna, uomo e bambino; ma andò sempre più specializzandosi sui prodotti per donna.

            Nella denuncia[80] il numero di operai dichiarati oscillava nella media di cinque o sei, e successivamente il numero crebbe fino a raggiungere i 27 operai, testimoniato da un questionario di censimento della società[81], in cui, tra le altre cose, veniva indicato come il proprietario dell’azienda fosse al pari degli altri impiegato come operaio nel lavoro di fabbrica.

            Allo stato attuale della ricerca non siamo in grado di dire nulla sull’attività dell’azienda condotta negli anni Sessanta. I dati raccolti in archivio, infatti, presentano una lacuna notevole in questo periodo.

            Maggiori informazioni, invece, riguardarono gli anni Settanta.

Nel 1977, sempre con denuncia di modifica[82], il calzaturificio cambia ufficialmente nome, assumendo la denominazione di “Calzaturificio Elata”.

            Il 1979 è un anno fondamentale per il calzaturificio, infatti, avviene il passaggio da società di fatto a società a responsabilità limitata, sotto il nome di “Elata-Salvatore Nicolazzo srl”[83], mantenendo la stessa compagine familiare alla quale via nel tempo si aggiunsero le nuove generazioni.

            Dalla lettura dei verbali dei consigli di amministrazione della società emergono dati importanti[84]. Fu nominato come primo amministratore delegato della società il figlio maschio minore, Martino Nicolazzo, con carica triennale; allo scadere dei tre anni la carica poteva essere rinnovata oppure tramite votazione si eleggeva il successore; il capitale sociale fu fissato in 749.000.000 lire, di cui 618.843.192 lire costituivano il valore dell’azienda, mentre 127.460.000 lire il valore degli immobili extra aziendali, destinati all’abitazione del direttore e del custode[85].

            La stima del suolo, dove venne fabbricato l’opificio fu stabilita in 784,20 mq, per un valore di 31.368.000 lire, il locale adibito alla lavorazione aveva un valore di 98.000.00 di lire, distribuito su una superficie di 490 metri quadrati[86].

Provvista di tutti macchinari all’avanguardia, e le comodità necessarie alla lavorazione della calzatura, la fabbrica riprese a pieno regime la produzione, e i prodotti messi sul mercato ottennero come sempre il successo che meritavano.

Una clientela nazionale e una estera dunque, del valore complessivo di oltre 80.000.000 lire[87], un ottimo punto di partenza per una società radicata nel tempo, questo è certo, ma che ripartiva da questo nuovo assetto societario e da una importante modernizzazione e che potevano minarne le certezze che si erano conquistate sul territorio.

Un primo bilancio ufficiale dell’azienda, avviene dopo tredici mesi di attività, riportato in verbale, nel 1980, ammonisce come l’azienda debba sempre mostrarsi guardinga nei confronti di un mercato nazionale ed internazionale difficile, che richiedeva l’allargamento verso altre zone geografiche; il bilancio restava comunque consolante, cercando di trovare nuove economie interne[88].

Nel corso degli anni, i ricavi della produzione vennero costantemente reinvestiti, sia per gli edifici adibiti alla lavorazione sia per i macchinari che venivano utilizzati, questo è un punto importante e da sottolineare[89]; tra il 1980 e il 1982, attraverso questo continuo intervento per l’ampliamento delle strutture, infatti, la fabbrica rallentò nei ricavi, proprio perché diminuì la produzione, conseguenza del fatto che i macchinari per essere rinnovati dovevano essere fermi, in conclusione però, ci fu il tanto sospirato allargamento delle strutture e l’ammodernamento delle macchine[90].

Il 1985 risulterà un anno di ripresa per il mercato calzaturiero, e il calzaturificio ne risentì in positivo.

Soprattutto dall’estero, la commissione dei prodotti Elata risultò decisiva affinché la lavorazione avesse sbocchi su questo mercato, come aveva già predetto il consiglio di amministrazione nell’analisi degli anni precedenti[91].

Nel 1987 la congiuntura sfavorevole ritornò d’attualità,lievitarono i prezzi e diminuì la produzione, ancora una volta si cercarono sbocchi nel mercato estero, soprattutto in Germania, puntando anche a degli appuntamenti fieristici nelle città tedesche, come Düsseldorf; fu necessario lavorare tanto per aprire questa nuova pista sul mercato, investire sui viaggi e sulle fiere[92].

I risultati vennero ancora una volta.

La politica del contenimento dei costi e l’incessante lavoro all’estero portarono i loro frutti; il 1984 riportò nuovamente l’economia dell’Elata ai livelli che era abituata a registrare[93].

Nel 1990 l’assemblea decise per un aumento di capitale, da 749.000.000 lire si giunse a 794.000.000 lire[94].

L’introduzione sul mercato di una nuova linea di scarpe da donna, portò i suoi primi frutti, il fatturato del 1991[95]ne risentì in positivo; non ultimo il mercato dell’Elata allargò nuovamente i suoi confini, si puntò ad oriente, cercando di entrare nel mercato giapponese.

Se il mercato interno fece registrare continui decrementi, quello estero  triplicò, grazie anche nel 1992 dell’introduzione dello strumento pubblicitario[96].

Nel 1995 il mercato italiano accennò ad una timida ripresa, che insieme al già confermato mercato estero, soprattutto mediorientale, solidificò la struttura dell’azienda[97].

Alle lacune dei documenti d’archivio, da questa data in poi, cercheremo di sopperire attraverso la testimonianza di Martino Nicolazzo, che nell’intervista rilasciata ha chiarito quali furono successivamente le linee generali dell’azienda nel prosieguo dell’attività.

La specializzazione sul prodotto per donna, come abbiamo detto, si diversificò in tipi di linee e di prodotto, seguendo quelli che furono gli sbocchi di mercato nazionale e internazionale soprattutto dagli ultimi anni del novecento.

Oltre alla linea da giorno, infatti, propose, a cavallo tra la fine del novecento e l’inizio del nuovo millennio, una linea sposa e un’ampia linea di modelli e di borse eleganti e di tendenza[98].

Nel tempo si è aggiunta la produzione di calzature da ballo professionale e da spettacolo per il mercato americano, soprattutto negli ultimissimi anni,che furono indossate in molti film e rappresentazioni teatrali da attori e attrici di Hollywood e Broadway, nonché da artisti italiani. 

2.3 La “Ditta Capozza”: dalla fabbricazione dell’alcool all’elettricità e alle altre iniziative industriali

 

 

Oltre al caso di Nicolazzo, un altro significativo esempio di impresa longeva è, come abbiamo detto, quello rappresentato dall’attività di Luigi Capozza, distintosi, all’avvio della sua ditta, nel campo dell’industria di distillazione di alcool e della fabbricazione del cremore di tartaro[99], e in seguito per l’aggiunta di altri esercizi, che segnarono Casarano come uno dei primi centri polisettoriali del Salento.

Luigi Capozza nasce a Molfetta il 26 gennaio del 1853.

Compie la sua formazione all’università di Innsbruck.

Trasferitosi a Casarano, dopo aver sposato Francesca De Donatis, una nobile e facoltosa ragazza di Casarano, Luigi fu tra i pionieri dello sviluppo economico della cittadina, contribuendo con le proprie iniziative coraggiose al decollo industriale e alla prima fase della sua modernizzazione.[100]

Luigi Capozza fu un uomo capace di confrontarsi con la gente; la sua opera di consigliere comunale e di vice sindaco dimostrò questa sua attitudine al dialogo, e si mise a disposizione della cittadinanza, sia in veste d’industriale sia di amministratore comunale, nonostante non fosse nato a Casarano, disse di sentire “quell’affetto sincero che è proprio di ogni buon cittadino per la sua terra natale”.[101]

I dati sulla sua vita politica, in questo lavoro, sono affidati ad alcuni suoi scritti, che non ci permettono di ricostruire del tutto la sua carriera amministrativa.

Il rapporto con la cittadinanza fu basato sempre sul reciproco rispetto, come anche importante fu il suo senso del dovere, infatti, combatté l’atteggiamento di negligenza che l’amministrazione comunale venne a tenere in alcune occasioni; nacque una diatriba con l’allora sindaco di Casarano Giambattista De Donatis[102], ripreso in un intervento dello stesso Capozza, con il titolo: Alla cittadinanza casaranese, in cui si evince chiaramente come questi oltre al denunciare l’incuria del sindaco nello svolgere la sua carica, dimostrava ancora una volta di più, come, con questo suo atteggiamento, desiderasse che le cose pubbliche, che di riflesso avrebbero giovato anche alle attività da lui intraprese a livello industriale e in favore della città, andassero affrontate con la giusta importanza.

Capozza fu uomo dalla tempra fortissima di lavoratore e d’industriale, il quale rappresentò sia a Casarano, ma in generale in tutto il Salento, il vero tipo d’innovatore che nella ristretta cerchia di precursori dell’industria salentina primeggiò per vastità d’iniziative nel campo della sua produzione.

Proprio sui terreni della moglie costruì, verso il 1880, gli stabilimenti che gli permisero di sviluppare la sua impresa[103].

Una lunga vita di lavoro e di audaci decisioni valsero, a gettare la base di un organismo vastissimo di cui ancora non si aveva nel territorio salentino alcun precedente, al punto che il 23 maggio del 1915, data della  morte di Luigi, l’uomo che rappresentò l’anima della “Ditta Capozza”, lasciò tra il compianto i casaranesi e l’intera provincia, che in lui, benché molfettese, aveva imparato ad apprezzare il cittadino laborioso e fiducioso nell’avvenire industriale della regione.

Questi stabilimenti formarono a Casarano un centro industriale di prim’ordine, fiorente di molteplici attività produttive che vanno dallo stabilimento per la produzione dell’alcool e di liquori, a quella del vino; dai molini, grandiosi per imponenza di macchinario, alla ghiacciaia e alla centrale elettrica[104].

Gli stabilimenti divennero, in breve, una forza vivissima di ricchezza e di lavoro,infatti, nella sua industria, Capozza impegnò la maggior parte della popolazione casaranese, risollevandola dalla crisi economica verificatasi tra alla fine dell’Ottocento. A questo proposito, lo stesso Capozza affermò che con la sua attività aveva garantito vantaggi non solo per la città di Casarano, ma per tutto il territorio provinciale leccese[105].

Nel 1930,il numero degli operai impiegati nella ditta raggiunse le quasi duecento unità[106]; un numero non certo esiguo per un organismo d’industria che prosperò in una regione ancora incapace di offrire una produzione in grande stile.

Ad essi, Capozza riuscì a garantire anche varie forme di previdenze economiche ed educative, segnale evidente della capacità dell’imprenditore di gestire l’attività lavorativa in chiave sicuramente moderna[107].

La prima attestazione che ci è pervenuta, riguardante lo stabilimento di distilleria e fabbricazione di liquori di Luigi Capozza è del 1884[108]. Essa è presente all’interno dell’Annuario Pugliese di quell’anno, ed elencato tra le produzioni industriali come “produzione di cremore di tartaro”, che a quel punto trovava largo impiego nel campo della medicina e della tintoria.

L’anno di fondazione fu, quasi certamente, il 1880, se consideriamo il fatto che fonti d’epoca indicarono nel 1930 il primo cinquantesimo anniversario della nascita dell’azienda.

L’azienda per efficienza di mezzi e modernità di macchinario e d’impianti, rappresentò il tipo di edificio moderno, capace di rispondere ai problemi che la viticoltura salentina attraversava a causa della crisi di fine Ottocento, causata com’è noto dal propagarsi in Puglia della filossera, una malattia della vite[109].

Inoltre, Capozza dimostrò spiccato interesse nei confronti delle cause e degli effetti della crisi del 1887, su cui non mancò di esprimere alcune osservazioni.

 “la legge –scrisse Capozza nel 1889- ha l’apparenza ben diversa dalla sostanza. Il forte ribasso della tassa, le facilitazioni accordate alle distillerie agrarie, la dispensa di certe formalità per le bevande alcooliche possono far parere ai profani che si sia voluto dare un forte impulso all’agricoltura e all’industria e che queste patrie speranze si sieno poste in grado di trionfare della crisi. Come le forme di libertà nascondono talvolta la più empia tirannide, così queste parvenze di concessione fanno credere buona e saggia questa legge che porta seco l’incertezza, la contradizione, il privilegio, la provvisorietà, il pregiudizio dell’erario e il danno gravissimo delle province più vinicole ed oggi più flagellate d’Italia. Mentre da una parte si favoriscono i proprietari di alcune province, si danneggiano quelli di altre e si pone la grande industria nazionale a discrezione del contrabbando di confine e di fabbrica: si dice di distruggere i privilegi e nel fatto si ribadiscono i più irragionevoli; si vuol fare omaggio alla libertà e si decreta la più proterva protezione regionale. Io ho scritto tutto ciò <<non per odio d’altrui né per disprezzo>> ma spinto dall’amore dell’industria, dalla devozione alla giustizia, dal sentimento di patria, e perché mi duole nel profondo dell’animo che si debba sempre ripetere col D’azeglio: L’italia è fatta ma mancano gli Italiani[110].

La questione fu ripresa da Capozza in un suo libretto[111], Il danno delle Puglie, nel quale affrontò il problema delle riforme adottate dal Governo, che intervenne per ridurre lo stato di crisi in cui versava l’Italia. All’interno di questo intervento, Capozza mise in risalto il chiaro intento, da parte del Governo, di favorire le regioni e le province del Nord, come le zone piemontesi. Secondo l’imprenditore, in queste zone le aziende agricole avevano usufruito al massimo del disegno di legge, che aveva annullato la differenza tra l’attività industriale di distillazione e quella condotta dalle aziende agricole, a favore di quest’ultime, che avevano prodotto la materia prima per poi raffinare il prodotto attraverso la distillazione, mettendo però sul mercato una merce di qualità minore; tutto questo a discapito delle industrie, come quella di Capozza, che nonostante fossero più predisposte ad una distillazione di qualità, avevano visto diminuire il loro lavoro.

Tornando sulle caratteristiche dell’attività della “Ditta Capozza” nel campo della distillazione dell’alcool, bisogna dire che la sua produzione fu basata sulla lavorazione sulla distillazione dell’alcool di buon gusto, che aveva una gradazione di 95 gradi e una quantità minima di impurezza; a sua volta l’alcool di buon gusto si suddivideva in due categorie: la prima era rappresentata dall’alcool ottenuto dalla distillazione di melassa estratta dallo zucchero di canna e dalla barbabietola, oppure da patate o cereali; la seconda categoria di alcool, e di cui faceva parte l’attività di Capozza, era ottenuta dalla distillazione di vino, vinacce, fecce di vinificazione o da prodotti di fermentazione di frutti quali mele, pere, fichi, ecc[112].

Capozza arrivò, così, a tenere il primato tra le industrie congeneri della provincia, specialmente nei riguardi del consumo adeguato all’ottima produzione, che le altre ditte faticavano ad eguagliare[113].

Nel primo decennio del Novecento, lo stabilimento Capozza prese un nuovo impulso e ampliò il raggio delle sue iniziative.

Sensibile verso le esigenze di sviluppo della città, che in quegli anni stava attraversando una fase di crescita continua, anche sotto il profilo edilizio, Capozza decise di installare in uno dei suoi stabilimenti una centrale termo-elettrica per l’illuminazione pubblica e privata.

D’accordo con la Giunta comunale, dopo aver compiuto le dovute valutazioni, Capozza coprì l’abitato con settantadue km di filo, impiantando nel tempo fino a centosessanta lampade pubbliche, provvedendo sempre alla sua manutenzione. “La luce elettrica – dichiarava lo stesso imprenditore nel 1912 – già da parecchio in uso nelle grandi città, bussava impaziente da parecchio alle porte di ogni pur piccolo comune, per sostituirsi irresistibilmente al petrolio.”[114] All’epoca vi erano settantacinque fanali a petrolio per le strade di Casarano, che erano dispendiosi dal punto di vista economico e non offrivano la necessaria illuminazione[115]. “Sono ormai tali e tante –proseguiva Capozza – le applicazioni di questa feconda ed incommensurabile forza nel campo industriale, economico e sociale…così nelle industrie, in tutto e dappertutto l’elettricità rivoluziona, svecchia, e schiude nuovi e radiosi orizzonti”[116].

Era il pensiero proprio dell’imprenditore, che nel 1912, si accingeva ad inaugurare questo nuovo impianto. Egli stesso si definì impegnato con tutte le sue energie morali e fisiche rivolte alla realizzazione di questa sua grande opera, in cui credeva tantissimo.

Per la centrale elettrica, Luigi Capozza costruì un edificio nuovo, attaccato al suo stabilimento industriale sito in Via Ruffano.  Egli assicurò ad essa tutto ciò potesse servire per il suo perfetto funzionamento: una sala delle macchine, una sala degli accumulatori, un deposito dell’olio pesante, un’officina meccanica, dei magazzini per il deposito, uffici e direzione e addirittura le abitazioni per il personale addetto alla centrale, che operava e dirigeva al suo interno[117]. Il direttore della centrale fu il sig. Leopoldo Vandroux, al quale i cittadini di Casarano potevano rivolgersi per l’installazione privata di un impianto nella propria abitazione. Il ruolo di capo meccanico, cioè colui il quale curava i contatori dei motori elettrici, gli apparecchi, le lampade e in generale la vigilanza dell’intera rete, fu ricoperto dal sig. Ruggero Cazzato[118].

La centrale elettrica era composta da un gruppo elettrogeno da 1000 kw.ora e capace di sviluppare una forza motrice di 600 cavalli; tale potenza poteva far fronte a tutte le necessità inerenti alle varie industrie gestite dalla Ditta e capace di offrire un’ottima illuminazione[119].

La stessa centrale, in un primo momento, generò energia attraverso due motori diesel ad olio pesante, che potevano lavorare sia isolatamente che in contemporanea, a seconda delle esigenze.

Nell’abitato furono fissati quattro baricentri dai quali attingere e ricevere la corrente dalla centrale; la tariffazione dell’energia elettrica partì da un minimo di cinque lampade ad un massimo di settantacinque per quanto riguarda i privati, con consumi che variavano dalle 0,70 lire fino a 2,00 lire, con l’allaccio che venne a costare 9,50 lire[120].

Capozza non tralasciò nulla al caso, come indicato nel libretto dedicato all’impianto elettrico:fornì, infatti, un servizio per l’acquisto e la riparazione delle lampade e per l’acquisto ed il noleggio dei contatori della luce[121].

 Degli incaricati specializzati furono a disposizione della manutenzione e dei guasti. Attraverso questo servizio, Capozza cercò di aumentare il livello d’informazione sulla centrale, fornendo ai cittadini casaranesi le indicazioni di base sulla centrale. Creò, pertanto, l’ennesima opportunità di lavoro per tanti giovani che si specializzarono in questo settore, partendo come operai, e via  poterono specializzarsi.

Un’opera che fu, tra le altre cose, uno strumento di risparmio in termini di consumo economico rispetto al periodo delle lampade a petrolio, oltre ai vantaggi di un’illuminazione qualitativamente migliore[122].

La diversità di Luigi Capozza non si manifestò nell’opera pensata, creata e messa a disposizione della città, ma nel suo sforzo, soprattutto economico, di ultimare a tutti i costi questa centrale, ancora una volta, sostenendo economicamente tutto il peso dell’operazione, che si aggirava intorno alle 30.000 lire per la realizzazione e di 19.000 lire annue previste di erogazione pubblica dell’energia elettrica. Oltre alle già citate iniziative riguardanti l’impianto elettrico, Capozza volle gratuitamente fornire di elettricità la casa comunale di Casarano, e aveva in progetto di portare l’elettricità fino a Melissano (che era allora frazione del comune di Casarano), dove arrivò nel 1931, grazie anche all’opera del figlio di Capozza, Giuseppe.

Alla centrale elettrica, poi, in concomitanza dell’apertura dell’impianto, si ricollegò il cinematografo, un’altra attività che Capozza avviò nel periodo immediatamente successivo all’inaugurazione, nel 1912 circa[123]. Una grande sala, appena fuori l’arco di Matino, nei pressi dell’attuale palazzo Ieca, fu allestita in maniera adeguata, con posti distinti, comodi e confortevoli, offrì al pubblico un dilettevole ed istruttivo divertimento. Un’iniziativa nuova, che rispecchiava il carattere d’innovatore e di grande cultura di Capozza, che offrì, ancora una volta, l’opportunità di crescere anche culturalmente alla popolazione casaranese, attraverso uno strumento che era in grado di regalare elementi di crescita dal punto di vista culturale e con una spesa minima[124].

Seguirono altre iniziative e realizzazioni che conferirono a Casarano un’aria decisamente cittadinesca[125].

            Non conosciamo sufficientemente le dinamiche delle attività di cui si tratterà ora, i dati di cui siamo in possesso sono molto scarsi o incompleti. Sappiamo però che l’imprenditore realizzò una fabbrica di ghiaccio, che funzionò in completa efficienza e fu capace di garantire una produzione fortissima, anche durante la stagione estiva. La fabbrica di ghiaccio, nella sua importante attività, corrispose al fabbisogno di molti paesi oltre a Casarano, nei quali il ghiaccio viene distribuito a mezzo di camion di proprietà della ditta, a prezzi di concorrenza[126].

Capozza, inoltre, edificò tre molini, dove si produsse sostanzialmente pasta;dotati di un macchinario eccezionale, un macchinario provvisto di laminatoi e accessori capaci di una forte e celere produzione, tali da affrontare con estrema facilità al fabbisogno di una vastissima clientela che si estende anche al di fuori della città di Casarano, a tutto il circondario[127].

La Ditta Capozza nel 1931, avviò ancora un’attività: una fabbrica di marmellate, al suo interno, la lavorazione e la creazione delle confetture si basarono soprattutto su due prodotti come il miele e la frutta; un’attività che già nell’anno dell’apertura della fabbrica, cominciò ad affermarsi in maniera lusinghiera, suscettibile di un larghissimo sviluppo[128].

         Alla morte del padre Luigi, gli succedette nella direzione delle numerose attività industriali il figlio Giuseppe.

            Questi nacque il 5 luglio del 1891 a Casarano.

            Si specializzò in Svizzera in studi di economia e di tecnica commerciale[129], probabilmente per avere una formazione che gli potesse permettere di proseguire l’attività del padre, ma non abbiamo dati certi per poter confermare questa ipotesi.

Prese parte alla grande guerra del 1915-1918 meritandosi importanti decorazioni[130].

Giuseppe Capozza continuò l’opera del padre con grande benevolenza, intelligenza e cortesia; si mostrava esattamente come suo padre, sempre ben disponibile verso la popolazione di Casarano e il resto della provincia.

            Si occupò appassionatamente della produzione e commercializzazione del vino: nel 1922 analizzò la crisi vinicola in un pubblico discorso tenuto a Lecce, nel Teatro Apollo, il 6 marzo di quell’anno[131].

            Si trattò di esporre alcune tesi, ad un comitato, definito di “Agitazione”, al fine di  trovare delle soluzioni alla crisi in cui versava il commercio vinicolo italiano in genere e pugliese nel particolare.

            Fu indetto dal presidente dell’allora Camera di Commercio di Lecce, Angelo Titi, che alla presenza di produttori e commercianti di vino, diede  l’incarico a Giuseppe Capozza di illustrare quali fossero le scelte da fare affinché si superasse da la grave crisi in corso.

            I punti della relazione, che Giuseppe Capozza toccò, furono: ribassare il costo, cioè rimuovere tutte le tasse che pesavano sulla produzione del vino, come le tasse sul trasporto e il traffico, su questo punto, tra l’altro, ritornò con un ennesimo intervento[132] nel 1923 dal titolo Abolizione del dazio sul vino, nel quale propose l’abolizione del dazio sul vino che gravava su 189 comuni e la sostituzione di esso con un’imposta governativa estesa a tutto il territorio nazionale; reprimere le frodi, infatti, si combatté a spada tratta la produzione clandestina di vino di fichi, di alcool e di zucchero; difendere il vino dalla concorrenza della birra, che entrò nel mercato nazionale dall’Austria e dalla Germania, attraverso alcune decisioni del governo che volle tenersi nelle proprie grazie due paesi europei, andando anche contro all’economia dell’Italia stessa.

 Per concludere, Capozza propose la promozione delle esportazioni del prodotto, ma questo si sarebbe verificato solo se il prodotto fosse stato di ottima qualità, riprendendo, tra le altre cose, il pensiero del padre Luigi, sull’importanza dell’industria, delle distillerie, le uniche in grado di poter affrontare una lavorazione con i mezzi tecnici adatti, per favorire nuovamente il consumo anche sul mercato internazionale del vino.

            Le notizie raccolte intorno all’operato di Giuseppe Capozza e alla sua vita risultano poco complete.

            Durante la seconda guerra mondiale garantì la fornitura di energia elettrica a tutto il paese, attraverso l’opera del padre, in un periodo in cui era pressoché impossibile realizzare le scorte di carbone necessarie.

            Morì nel 1944 in un incidente stradale, proprio quando le sue capacità imprenditoriali e la sua operosità erano proiettate verso altre realizzazioni sociali a beneficio dell’economia casaranese.

            Queste informazioni ci sono servite a dare un’idea di ciò che realmente fu per il Salento la realizzazione completa di una così vasta struttura industriale.

            Tra i meriti più grandi, di questi due importantissimi imprenditori, ci fu senza dubbio, quella di aver dato vita a molte provvide istituzioni di carattere sociale ed educativo che accanto al fervido e incessante lavoro si svilupparono meravigliosamente.

            L’istituzione del “Dopolavoro” per gli operai dipendenti, la prima iniziativa del genere realizzata in provincia; l’incremento dello sport a Casarano, con la dotazione di un bellissimo e completo campo da calcio, e la fondazione di una squadra di calcio[133] che giocasse su questo campo, nel 1927; sono anche queste realizzazioni personali di Giuseppe Capozza, che integrarono la sua opera che durò nel tempo, un’opera di lavoro e di bene[134].

            Alla morte di Giuseppe Capozza, la Ditta proseguì la sua attività attraverso i figli e la moglie.

            Tramite i dati raccolti nel registro delle ditte della Camera di Commercio di Lecce, possiamo ricostruire, anche se per sommi capi e non in maniera puntuale, le tappe dell’attività negli anni che seguirono.

            I figli e la moglie costituirono la società l’1- 12- 1944, con una denuncia tramite atto di costituzione alla Camera di Commercio di Lecce[135].

            Giuseppina Capozza, moglie di Giuseppe, ed i figli Luigi, Rosetta e Teresa[136] furono quindi i soci della nuova società di fatto, al passaggio dalla precedente forma giuridica di società individuale.

            Le attività rimasero le stesse, la distillazione dell’alcool e la produzione di vini, vermouth e marsala, anche la produzione dell’acquavite con il trasporto delle merci per conto terzi, tramite camion[137].

            Rimasero attive la ghiacciaia, il molino e la trebbiatura dei cereali.

            Dal 1944 al 1948, probabilmente il molino fu inattivo, in quanto da un documento si evince come l’attività sia stata ripresa nella sua gestione nel 1948[138].

            Nel 1954 chiuse il cinematografo, non si conosce precisamente la causa, la notizia lo apprendiamo attraverso una nota sull’atto di modificazione rinvenuto sempre presso il registro delle ditte della Camera di Commercio di Lecce[139].

            Dall’analisi delle fonti archivistiche, risulta che nel 1959 viene avviato l’esercizio riguardante l’attività di costruzione e manutenzione di apparecchiature industriali, un nuovo tipo di attività questo; quest’impresa risulta essere costituita come impresa individuale, infatti, l’unico titolare firmatario è Luigi Capozza, primogenito di Giuseppe Capozza[140].

            A partire da questo momento l’unico dato rimasto in nostro possesso è la data di cessazione dell’attività della Ditta, il 31-12- 1980[141].

 

                                             

                                              FONTI

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Fonti orali

 

Intervista condotta a Martino Nicolazzo, figlio di Salvatore Nicolazzo e uno degli attuali dirigenti del calzaturificio Elata, 15 maggio 2013.

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[1] L. Masella, L'industrializzazione della Puglia. Una ricognizione storiografica, in AA.VV., Annali di storia dell'impresa n.11-2000 Fondazione Assi, Bologna, Il Mulino, 2000, pp. 125-126.

[2] D. Bigazzi, Presentazione, in D. Bigazzi (a cura di), Storie di imprenditori, Bologna, Il Mulino, 1996, pp. 7-8.

[3] Ibidem.

[4] Ivi, p. 9.

[5] A.L. Denitto, Alle origini della Puglia contemporanea, in A. Massafra e B. Salvemini (a cura di), Storia della Puglia, vol. 2, Dal seicento ad oggi, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 107-108.

[6] L. Masella, L'industrializzazione della Puglia …, cit., p. 125.

[7]Ibidem.

[8] Ibidem.

[9] Il riferimento va nello specifico al lavoro degli studiosi che gravitavano intorno all’orbita di una rivista Meridiana, fondata da un Istituto meridionale di scienze sociali e storia. La rivista si caratterizzava per il suo taglio scientifico e politico, per la valorizzazione del Mezzogiorno nel mercato dell’Europa e del Mediterraneo.

[10] O. Bianchi, L’impresa agro-industriale. Un’economia urbana e rurale tra XIX e XX secolo, Bari, Dedalo, 2000, pp. 13-14.

[11] A.L. Denitto, Alle origini della Puglia contemporanea, cit., p. 104.

[12] Ivi, p.105.

[13] Ivi, p.106.

[14] G. Viesti, Introduzione, in M. Comei, La fabbrica degli abiti. Cesare Contegiacomo e la sua impresa 1905-1985, Roma-Bari, Laterza, 2012, pp. V-VI.

[15] Ibidem.

[16] Ibidem.

[17] L. Masella, L'industrializzazione della Puglia …, cit., p. 126; B. Salvemini, Prima della Puglia. Terra di Bari e il sistema regionale in età moderna, in L. Masella-B. Salvemini (a cura di), Le regioni dall’Unità a oggi. La Puglia, Torino, Einaudi, 1988, p. 164.

[18] O. Bianchi, L'impresa agro-industriale …, cit., p. 15.

[19] L. Masella, L'industrializzazione della Puglia…, cit., p. 126.

[20] O. Bianchi, L'impresa agro-industriale…, cit., p. 45.

[21] Ivi, p. 46.

[22] A.L. Denitto, Alle origini della Puglia contemporanea…, cit., p.112.

[23] Ibidem.

[24] Ibidem.

[25] Ivi, p.114.

[26] L. Masella, L'industrializzazione della Puglia …, cit., p. 127.

[27] Ivi, p. 47.

[28] A.L. Denitto, Proprietari, mercanti, imprenditori tra rendita e profitto, in M. M. Rizzo (a cura di), Storia di Lecce dall'Unità al secondo dopoguerra, Roma-Bari, Laterza, 1992, p. 110.

[29] Ivi, p. 132.

[30] Ivi, p.165.

[31] L. Masella, L'industrializzazione della Puglia…, cit., p. 137.

[32] Ivi, p. 138.

[33] Ivi, p. 140.

[34] O. Bianchi, Economia e società in Puglia negli anni del Fascismo, in A. Massafra-B. Salvemini (a cura di), Storia della Puglia…, cit., p. 141.

[35] Ivi, p. 142.

[36] Ivi, p.148.

[37] Ivi, p.149.

[38] Ivi, p. 146.

[39] Ivi, p.155.

[40] Ivi, p.160.

[41] V. Persichella, Le trasformazioni della società dal secondo dopoguerra agli anni novanta, in A.Massafra-B.Salvemini(a cura di), Storia della Puglia…, cit., p. 194.

[42] Ivi, p. 196.

[43] Ivi, p. 199.

[44] A.P. Paladini-M. Romano, La rappresentazione territoriale dello sviluppo industriale del Salento nel secondo '900, in A.L. Denitto (a cura di), ATLAS. Atlante storico della Puglia moderna e contemporanea. Materiali su amministrazione, politica, industria, Bari, Edipuglia, 2010, p. 70.

[45] Ivi, p. 80.

[46] È il caso, come diremo, di Casarano.

[47] V. Persichella, Le trasformazioni della società …, cit., p. 212.

[48] Ivi, p. 215.

[49] A.P. Paladini-M. Romano, La rappresentazione territoriale…, cit., p. 88.

[50] Ivi, pp. 90-91.

[51] A. Chetry S.J., Spigolature Casaranesi. Quaderni I-VI, a cura di Amministrazione comunale di Casarano, Casarano, Carra, 1990, p. 11.

[52] C. De Giorgi, Casarano e le sue colline. Bozzetti scientifici, Gallipoli, Tipografia municipale, 1873, p. 25.

[53] A. Chetry S.J., Spigolature Casaranesi …, cit., p. 12.

[54] S. Petrachi, Per lo studio delle comunità rurali del Mezzogiorno: famiglia e società a Casarano nel 1931, Tesi di laurea in Storia Contemporanea, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 2000- 2001, relatrice prof.ssa A.L. Denitto, p. 35.

[55] V. Zacchino, I Casaranesi, Lecce, Edizioni del Grifo, 1991, p. 31.

[56] S. Petrachi, Per lo studio …, cit., p. 36.

[57] Ivi, p. 67.

[58] Ivi, p. 62.

[59] Ivi, p. 42.

[60] http://www.progettostoria.unisalento.it, consultato il 20- 6- 2013.

[61] http://www.comune.casarano.le.it/storia/cennistorici.aspx, consultato il 19- 5- 2013.

[62]  http://demo.istat.it/pop2012/index.html, Dato Istat - Popolazione residente al 31 marzo 2012, consultato il 23- 5- 2013

[63] A. Chetry S.J., Spigolature Casaranesi …, cit., p. 12.

[64] http: // www. impreseneltempo-torino.it, consultato il 20- 4- 2013.

[65] Intervista condotta a Martino Nicolazzo (15 maggio 2013).

[66] V. Zacchino, I Casaranesi, cit., p. 75.

[67] Non è stato possibile risalire al nome della regina.

[68] Non abbiamo fonti riguardo alle industrie milanesi presso cui Nicolazzo lavorò e fece il suo corso di apprendistato.

[69] V. Zacchino, I Casaranesi …, cit., p. 75.

[70] Leonarda Mita era nata a Casarano il 18- 5- 1899.

[71] Intervista condotta a Martino Nicolazzo (15 maggio 2013).

[72] Taranto e Brindisi soprattutto, che facevano parte dell’antica Terra d’Otranto e che tuttora fanno parte del grande Salento, si erano indirizzate verso un’attività d’industria basata sul settore siderurgico, chimico e petrolchimico. A.P. Paladini-M. Romano, La rappresentazione territoriale …, cit., pp. 73-77.

[73] Ad esempio Antonio Filograna, che fondò negli anni Ottanta a Casarano “Filanto”, un altro calzaturificio, che diverrà importantissimo nel settore.

V. Zacchino, I Casaranesi, cit., p. 75.

[74] Salvatore Nicolazzo aveva avuto da sua moglie sette figli, cinque femmine e due maschi: Amleto, nato il 8- 3-1926; Campana Claudia, nata il 7-8-1929; Maria, nata il 30-11-1931; Gennara, nata il 26-1- 1934; Teresa Assunta, nata il 14- 8- 1936; Tommasa, nata il  14- 8- 1936; Martino, nato il 10- 11- 1938.

[75] Intervista condotta a Martino Nicolazzo (15 maggio 2013).

[76] Archivio storico Camera di Commercio di Lecce (d’ora in poi ASCCIAA), Registro delle ditte, Fascicolo num. 5232, Atto riguardante la costituzione di società, 16- 9- 1959 (in appendice immagini 4148- 4149- 4150- 4151).

[77] Intervista condotta a Martino Nicolazzo (15 maggio 2013).

[78] Intervista condotta a Martino Nicolazzo (15 maggio 2013).

[79] ASCCIAA, Registro delle ditte, Fascicolo num. 5232, Atto riguardante la costituzione di società, 16- 9- 1959.

[80] Ibidem.

[81] ASCCIAA, Registro delle ditte, Questionario di censimento, num. 27/82, 25- 10- 1971.

[82] ASCIAA, Registro delle ditte, denuncia di modificazione, num. 57877/ 127956, 25- 1- 1969.

[83]ASCIAA, denuncia di modificazione, num. 57877/ 192988, trasformazione in s.r.l., 29- 8- 1979; Fascicolo num. 5232, verbale 7548, cancelleria del Tribunale di Lecce, documenti ed atti depositati, (cfr. appendice iconografica).

[84] ASCCIAA, Registro delle ditte, Cancelleria del Tribunale di Lecce, Fascicolo num. 5232, documenti ed atti depositati.

[85] ASCCIAA, Registro delle ditte, Cancelleria del Tribunale di Lecce, documenti ed atti depositati, Fascicolo num. 5232, Atto num. 23694.

[86] ASCCIAA, Registro delle ditte, Cancelleria del Tribunale di Lecce, documenti ed atti depositati, Fascicolo num. 5232, Atto num. 23792.

[87] Ivi, atto num. 23792.

[88] ASCCIAA, Registro delle ditte, Cancelleria del Tribunale di Lecce, documenti ed atti depositati, Fascicolo num. 5232, Atto num. 34933 ( relazione al bilancio chiuso al 31-12- 1980).

[89] ASCCIAA, Registro delle ditte, Cancelleria del Tribunale di Lecce, documenti ed atti depositati, Fascicolo num. 5232, Atto num. 98842.

[90] ASCCIAA, Registro delle ditte, Cancelleria del Tribunale di Lecce, documenti ed atti depositati, Fascicolo num. 5232, verbale num. 9, allegato A.

[91] ASCCIAA, Registro delle ditte, Cancelleria del Tribunale di Lecce, documenti ed atti depositati, Fascicolo num. 5232, verbale num. 62462. (controlla, anche per ivi ecc.)

[92] ASCCIAA, Registro delle ditte, Cancelleria del Tribunale di Lecce, documenti ed atti depositati, Fascicolo num. 5232, verbale della relazione di bilancio dell’amministratore unico al 31- 12- 1987.

[93] ASCCIAA, Registro delle ditte, Cancelleria del Tribunale di Lecce, documenti ed atti depositati, Fascicolo num. 5232, Verbale della relazione di bilancio dell’amministratore unico al 31- 12- 1989.

[94] ASCCIAA, Registro delle ditte, Cancelleria del Tribunale di Lecce, documenti ed atti depositati, Fascicolo num. 5232, Atto num. 38509.

[95] ASCCIAA, Registro delle ditte, Cancelleria del Tribunale di Lecce, documenti ed atti depositati, Fascicolo num. 5232, Verbale della relazione di bilancio dell’amministratore unico al 31- 12- 1991.

[96] ASCCIAA, Registro delle ditte, Cancelleria del Tribunale di Lecce, documenti ed atti depositati, Fascicolo num. 5232, Verbale della relazione di bilancio dell’amministratore unico al 31- 12- 1992.

[97] ASCCIAA, Registro delle ditte, Cancelleria del Tribunale di Lecce, documenti ed atti depositati, Fascicolo num. 5232, Verbale della relazione di bilancio dell’amministratore unico al 31- 12- 1995.

[98] Intervista condotta a Martino Nicolazzo (15 maggio 2013); http: // www. elata.it, consultato il 25-5- 2013.

[99] Cioè il tartaro delle botti che vi si deposita dal lungo soggiornare dei vini, purificato, imbiancato e smerciato per uso principalmente della medicina, essendo un ottimo purgativo.

[100] V. Zacchino, I Casaranesi …, cit., p. 31.

[101] L. Capozza, Alla cittadinanza casaranese, Gallipoli, Tipografia gallipolina, 1892, p. 4.

[102] La questione riguardava le reazioni scaturite dopo alcune osservazioni fatte da Capozza alla relazione sul bilancio comunale redatto dal Sindaco nel 1892; non c’è dato sapere su cosa vertevano le osservazioni di Capozza in quanto non siamo in possesso del contenuto di queste.

[103] V. Zacchino, I Casaranesi …, cit., p. 31.

[104] G. Carruggio, Il Salento. Rassegna annuale della vita e del pensiero salentino. Vol. V. Per l’anno 1931, Lecce, Editrice “L’Italia Meridionale”, 1931, p. 81.

[105] L. Capozza, Alla cittadinanza casaranese, cit., p.6.

[106] Ivi, p. 84

[107] Ivi, p. 82.

[108] D. Mele Di Gaetano, Annuario pugliese, Foggia-Napoli, Tipografie editrici Saverio Pollice-Eugenio Aniello, 1884, p. 78.

[109] A.L. Denitto, Alle origini della Puglia contemporanea, cit., pp. 112-113.

[110] L. Capozza, Il danno delle Puglie. Poche considerazioni intorno al disegno di legge sugli spiriti, Lecce, Tipografia di G. Campanella e figlio, 1889, pp. 28-29.

[111] Ivi, 10- 16.

[112] Cfr. appendice iconografica.

[113] Non disponiamo purtroppo d’informazioni utili che specifichino come concretamente l’imprenditore compì la sua ascesa industriale.

[114] L. Capozza, Impianto elettrico in Casarano, Matino, Tipografia Donato Siena, 1912, p. 16

[115] Ivi, p. 12.

[116] Ivi, p. 4.

[117] Ivi, p.5.

[118] Ivi, p. 6.

[119] Ivi, p. 7.

[120] Ivi, p. 12.

[121] Il costo della luce rimase quello imposto dal governo: 0,06 Kilowattora (cfr. appendice iconografica).

[122] L. Capozza, Impianto elettrico in Casarano, cit., p., 21.

[123] Ivi, p. 30.

[124] Ivi, p. 31.

[125] V. Zacchino, I Casaranesi, cit., p. 31.

[126] G. Carruggio, Il Salento …, cit., p. 83.

[127] Ivi, p. 83.

[128] Ivi, pp. 83- 84.

[129] V. Zacchino, I Casaranesi …, cit., p. 29.

[130] Ivi, p. 30.

[131] G. Capozza, Relazione sulla crisi vinicola fatta in Lecce il 6 Marzo 1922, Matino, Carra, 1922, pp. 4-7.

[132] G. Capozza, Abolizione del dazio sul vino, Matino, Siena, 1923, pp. 12-17.

[133] Cfr. appendice iconografica.

[134] G. Carruggio, Il Salento …, cit., p. 85.

[135] ASCCIAA, Registro delle ditte, denuncia di modifica, atto num., 31809/23821, (cfr. appendice iconografica).

[136] Cavaliere Capozza Giuseppina, nata a Mesagne il 12-10- 1899; Capozza Luigi, nato a Casarano il 31- 01- 1925; Capozza Ornella, nata a Casarano il 7- 3- 1922; Capozza Rosetta, nata a Casarano il 7- 5- 1923; Capozza Teresa, nata a Casarano 17- 2 -1927.

[137] ASCCIAA, Registro delle ditte, denuncia di modifica, atto num., 31809/ 27061.

[138] ASCCIAA, Registro delle ditte, denuncia di modifica, atto num., 31809/46509.

[139] ASCCIAA, Registro delle ditte, denuncia di modifica, atto num., 31809/47863 (cfr. appendice iconografica.)

[140] http://infoweb.intra.infocamere.it, Visura camerale dall’ASCCIAA, Registro delle ditte, iscrizione ordinaria su denuncia della ditta, visualizzato il 19- 3- 2013.

[141] http://infoweb.intra.infocamere.it, Visura camerale dall’ASCCIAA, Registro delle ditte, cancellazione e trasferimento sede, cessazione d’ufficio, visualizzato il 19- 3- 2013.